Pino Dal Gal appartiene alla generazione di autori italiani che prendono a operare nella seconda metà degli anni cinquanta. Ciò significa molte cose, dal punto di vista della sua cultura fotografica, e della sua cultura tutta.

Oggi, finalmente, quando si parla della Bussola o della Misa si sa di cosa si tratti, e si è compreso che il dibattito di quegli anni sul realismo, sul raccontare, e sull’autonomia linguistica dell’immagine, non passa solo attraverso le pagine dei libri e le sequenze cinematografiche: anche se, si dovrebbe dedurre da ciò che si legge in sede critica, i fotografi non andavano mai al cinema: possibile che i De Sica e i Rossellini e gli Antonioni – per dire, l’Avventura è del 1959 – non abbiano mai contato nulla rispetto al racconto fotografico? Fatta salva, naturalmente, l’atipica mitizzata liaison Secchiarolo-Fellini, con Tazio che sta a Cinecittà come il Weegee di Naked City sta al cinema americano…. Dunque, pronunciare la storia, raccontare il mondo, era faccenda che riguardava la scrittura ma anche la cultura d’immagine: e, visti gli esiti con il senno di oggi, assai più la cultura fotografica che la pittorica.

Franco Pinna vale da solo tutto il realismo sociale passato alle Biennali di Venezia; ciò che il “Politecnico” pubblica di Bishof e di Crocenzi è, davvero, discorso di storia, così come il modello0 -mai rimosso ma mai veramente posto nel giusto risalto- di Un paese di Strand e Zavattini: guarda caso Zavattini, proprio l’intellettuale che capisce da subito, in un’Italia ancora un po’ borbonica, quanto cinema e fotografia abbiano da dire, rispetto alla sdrucita tradizione letteraria “alta”.

Tant’è. Il contesto, a linee grandissime, è questo. E’ quello di autori che si chiamano Patellani e Monti, Mulas, De Biasi e Giacomelli, scalati in un paio di generazioni straordinarie. Dal Gal è della partita, da subito. Con un lavoro che possiede le due caratteristiche concettuali e formali più tipiche, e forti, di quel tempo.

Da un canto la voglia di narrare, e la capacità innata - chiedo venia, ma credo nelle vocazioni - di racconto. Dall’altro, un regard lucido, penetrante, ma insieme scevro dall’apparato di premesse e di distinguo ideologici che, in quel tempo, zavorravano retine e obiettivi, oltre che cervelli. Uno sguardo, naturalmente, in bianco/nero, quel bianco/nero crudo, oggi verrebbe da dire astratto, così aderente alla costituzione fisica delle situazioni, così capace di scalare grigi austeri e nitidi fino a rapprendere la scena in capacità emblematica. Un bianco/nero così connaturato al mondo che Dal Gal ha di risolvere la ripresa da mantenere una sorta di chiave in “minore”, di ten moyen, anche nel colore, al quale egli sottrae il meretricio delle bellurie sensibilistiche per scavarne una sorta di apparato meditato e sottile di tonalità.

Dal Gal racconta di terra e di persone: anche quando racconta di polli. Racconta usando della seriazione delle immagini in una successione di snodi forti di evidenza. E’ uno di quegli autori, per intenderci, dei quali un’immagine contiene i cromosomi della narrazione tutta. Non azzanna criticamente la visione, non la carica di intenti che si possano chiamare critici, o ideologici. Parimenti, non raffredda lo sguardo straniandosi in una sorta di disincanto gelato. men che meno cade nelle trappole dell’esotismo intellettuale, soprattutto quando tocca argomenti che le retoriche visive hanno già provveduto a saccheggiare.

Guarda, e il suo sguardo carezza le figure, accetta consapevolmente il proprio statuto di curiosità e lo dispiega in unha visione partecipe non complice, scrutinando i segni che possano dirci una Kultur, mai gli stereotipi, i segni grandi di un pensiero già formulato e che agisca per riconoscimenti. E’ così lucida questa condizione mentale che si fa statuto operativo, da non avere neppure bisogno di identificarsi in uno stile: stile, s’intenda, nel senso dei protocolli a loro volta retorici che circolano per la fotografia contemporanea.

Dal Gal ragiona su un progetto visivo, e man mano che lo elabora s’acconcia le soluzioni adeguate in termini di formula fotografica. E’ il tasso critico preventivo che l’autore immette nel processo, e la lucida consapevolezza che tale processo ha inizio ben prima, e si compie ben dopo lo scatto e la stampa, a fare da fattore unificante incoercibile, a fornire la cifra e lo spessore linguistico dell’immagine, della serie. Il suo sguardo carezza le figure, s’è detto. Il termine si presta a fraintendimenti. S’intende, qui, ciò che Giovanni Guareschi, uomo di terra e di Po come Dal Gal (echeggiato da una altro grande Padano, Gianni Brera), diceva del paesaggio nostro, del quale si sente che ogni mattone ha sentito la carezza della mano dell’uomo.

E’ una carezza virile, senza morbosità affettive, beninteso. E’ la carezza della sapienza antica, della mano che sa cosa sia la dimora, cosa sia il “luogo buono”. Ebbene, luoghi buoni sono anche quelli che Dal Gal ripensa e ci racconta. Luoghi, sempre, che si avvertono del vivere; paesaggi che non si concepirebbero senza la trama minuta, brulicante, oscura forse ma persistente, di coloro che, abitandoli, li sanno. Sono realtà infine. Anche quando Dal Gal si concede tentazioni caute di formalismo - penso per esempio alle rocce e alle nature morte - avverti che lì intorno si vive la vita, c’è una storia che ha rumori, odori, sapori. Respiri.